Verso una gestione sempre più mirata del paziente coronaropatico: l’ISCHEMIA Trial
Un ampio studio randomizzato ha confrontato la terapia invasiva di routine con una terapia medica ottimale nei pazienti con cardiopatia ischemica stabile. Con risultati sorprendenti.
Un ampio studio randomizzato su oltre 5.000 pazienti seguiti per 3,3 anni, l’ISCHEMIA trial, – finanziato dal National Heart, Lung, and Blood Institute statunitense, – ha confrontato verso una terapia medica ottimizzata la terapia invasiva di routine per la rivascolarizzazione dei pazienti con cardiopatia ischemica stabile, ischemia miocardica da moderata a grave, accertata con stress test non invasivo, e malattia renale cronica avanzata.
I pazienti sono stati randomizzati alla terapia invasiva di routine (n = 2.588) rispetto alla terapia medica (n = 2.591). Nel gruppo destinato alla terapia invasiva, i soggetti sono stati sottoposti ad angiografia coronarica e quindi ad angioplastica percutanea (PCI) o a bypass coronarico (CABG), a seconda dei casi. Nel gruppo trattato con terapia medica, i pazienti sono stati sottoposti ad coronarografia solo dopo l’eventuale fallimento della terapia medica stessa.
Lo studio ha evidenziato che le procedure interventistiche non riducono il tasso complessivo di infarto o morte rispetto alle sole terapie mediche associate a cambiamenti nello stile di vita. Tuttavia, per chi presenta dolore toracico, vale a dire per circa due terzi dei pazienti arruolati nello studio, la rivascolarizzazione migliora i sintomi e dunque la qualità della vita.
Apparentemente, stando ai risultati, nei pazienti con cardiopatia ischemica stabile e ischemia da moderata a grave la rivascolarizzazione di routine non ridurrebbe né i principali eventi cardiaci né la mortalità per tutte le cause o quella cardiovascolare / infarto miocardico rispetto alla terapia medica ottimizzata.
“Nell’ISCHEMIA trial, aggiunge però Pontone, tutti i pazienti eseguivano una TAC cardiaca per l’esclusione della patologia del tronco comune, essendo, in caso contrario, indirizzati a rivascolarizzazione indipendentemente dalla presenza o meno di ischemia, a rafforzare il paradigma di eseguire un rule-out anatomico con TAC della patologia dei vasi più importanti”.
Dal punto di vista della Cardiologia interventistica, i risultati dello studio ISCHEMIA, mentre confermano la necessità di considerare la terapia medica ottimale come un trattamento efficace per molti pazienti con cardiopatia ischemica stabile, non contraddicono però i molti studi clinici precedenti che hanno dimostrato la superiorità della rivascolarizzazione invasiva rispetto alla terapia medica nei pazienti con specifici modelli anatomici di malattia coronarica. D’altra parte, nello studio non erano inclusi i pazienti che avrebbero tratto benefici certi dalla rivascolarizzazione, come chi presentava significativa malattia principale sinistra, malattia multi-vasale con funzione ventricolare sinistra gravemente compromessa, insufficienza cardiaca su base ischemica, sindromi coronariche acute e angina instabile.
Va poi segnalato, precisa Pontone, che “circa 1/3 dei pazienti hanno eseguito come stress test il test da sforzo che è un test di I livello e che il dato di ischemia non era un driver obbligatorio nella strategia di rivascolarizzazione. I dati di ISCHEMIA trial andranno dunque riletti in maniera approfondita e critica alla luce di possibili bias nella diagnosi dell’ischemia e nell’appropriatezza della rivascolarizzazione”.
Va detto, infine, che questi risultati non si applicano ai pazienti con sindrome coronarica acuta in atto o recente, a pazienti altamente sintomatici, con stenosi principale sinistra o frazione di eiezione VS <35%. D’altra parte, lo studio stimola riflessioni contrastanti, con evidenze favorevoli e contrarie a entrambe le decisioni cliniche.