Riduzione del glucosio ed esiti cardiovascolari nei pazienti con diabete mellito
Una nuova rassegna valuta le evidenze disponibili sulla gestione dell'iperglicemia acuta in corso di sindrome coronarica acuta.
Il diabete di tipo 2 è una frequente co-morbilità nei pazienti ospedalizzati per un evento cardiaco acuto e la sua prevalenza è in aumento. Dal 1990 al 2013, il numero stimato di anni di vita persi a causa del diabete è aumentato di oltre il 50% a livello globale, mentre nello stesso periodo il numero totale di anni di vita persi a causa di qualsiasi causa è diminuito del 16% circa.
In particolare, l’incidenza del primo evento coronarico è significativamente più elevata nei pazienti con diabete mellito rispetto a chi non ne soffre. Tra i pazienti con infarto miocardico acuto con sopra-slivellamento del tratto ST (STEMI) trattato con angioplastica coronarica primaria, il 25% ha una storia di diabete, quasi il 10% ha un diabete misconosciuto e il 38% una condizione di pre-diabete. E, tra questi pazienti, il diabete può essere un predittore indipendente di mortalità e nuovi eventi cardiovascolari: gli outcome a breve e a lungo termine sono peggiori per i pazienti diabetici. Infine, anche il diabete non noto ma diagnosticato al momento del ricovero è associato a una maggiore mortalità.
Quale sia l'effetto del controllo glicemico acuto sugli esiti cardiovascolari e quale sia il miglior approccio al trattamento dell'iperglicemia al momento del ricovero ospedaliero per sindrome coronarica acuta in pazienti con o senza diabete noto rimangono questioni aperte. Così, una nuova revisione della letteratura ha valutato le evidenze disponibili.
Un panel di esperti italiani, tra cui Stefano Genovese, Responsabile dell'Unità di Diabetologia, Endocrinologia delle malattie metaboliche del Monzino, ha identificato cinque principali questioni legate all'impatto e al trattamento dell'iperglicemia al momento dell'evento cardiovascolare. Allo scopo, è stata compiuta una query PubMed per identificare studi rilevanti pubblicati in inglese dal 1975 al 2016 che rispondessero ad alcune domande cruciali. Queste le risposte con maggiore livello di evidenza.
Innanzitutto gli Autori confermano che, secondo la letteratura, il glucosio plasmatico e l'emoglobina glicata (HbA1c), misurate al momento del ricovero per infarto, giocano un ruolo importante nel predire la mortalità a breve e a lungo termine dopo infarto miocardico. Anche il basso livello di glucosio nel sangue al momento del ricovero per infarto è un potente fattore predittivo di mortalità nei pazienti con e senza diabete.
Al contrario, gli Autori non hanno trovato evidenze sufficienti a sostegno dell'ipotesi che l’insulina e l'infusione di glucosio abbiano vantaggi rispetto all'infusione di glucosio-insulina-potassio. Questi trattamenti possono ridurre la mortalità dopo infarto, ma potrebbero anche aumentare il rischio di ipoglicemia. Analogamente, non è supportato da dati sufficienti l’efficacia della somministrazione dei nuovi farmaci che riducono la glicemia al momento del ricovero.
C'è un urgente bisogno di studi che esplorino i potenziali vantaggi dei trattamenti non insulinici non associati al rischio di ipoglicemia nei pazienti con diabete e sindrome coronarica acuta. In mancanza di evidenze solide, l'insulina dev’essere utilizzata per trattare l'iperglicemia al ricovero, che mira a livelli plasmatici di glicemia di 90-140 mg/dL, come suggerito anche dall'American Diabetes Association, evitando l’instaurarsi di ipoglicemia.