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Alta quota più sicura per chi soffre di cuore

Il Prof. Piergiuseppe Agostoni spiega il perché

5 Settembre Set 2017 0000 7 years ago

La vacanza in montagna non deve essere considerata un tabù per i cardiopatici. Abbiamo chiesto il perchè a Piergiuseppe Agostoni, coordinatore dell’Area di Cardiologia Critica del Centro Cardiologico Monzino.

La montagna è stata a lungo considerata un rischio per chi ha il cuore fragile. Perchè oggi è più sicura?

Oggi abbiamo nuovi strumenti di valutazione del rischio individuale che ci permettono di stimare con precisione gli effetti dell’altitudine sul sistema cardiocircolatorio e prevedere gli eventuali rischi, garantendo così una "salita in sicurezza". Possiamo essere molto precisi nello stabilire non solo se una persona può raggiungere l’alta quota, ma anche quale tempo di acclimatamento deve rispettare, fino a quali altezze può spingersi, quali farmaci eventualmente deve assumere per stare meglio. Oppure, se già assume una terapia stabiliamo come dobbiamo modificarla ed eventualmente rafforzarla.

Ma cosa c'entra esattamente l’altitudine con il cuore?

All’aumentare della quota diminuisce la disponibilità di ossigeno presente nell’aria e, proprio per compensare questa mancanza, il corpo aumenta il lavoro cardiaco, respiratorio, e la pressione arteriosa. Ma non è tutto: in quota è limitata anche la capacità dell’organismo di utilizzare l’ossigeno. Ci si trova così ad avere, da un lato, meno ossigeno a disposizione, e dall’altro un’inferiore capacità di utilizzarlo. Tutto questo genera alterazioni significative a livello cardiovascolare, fino a correre possibili rischi di infarto e ictus per gli individui già sofferenti. Se poi in quota si pratica sport, il rischio a cui ci si espone è ancora maggiore perché il fabbisogno di ossigeno dell’organismo aumenta.

La montagna è stata per molto tempo un tabù per chi soffriva di cuore

A lungo i cardiologi hanno sconsigliato la montagna a tutela dei pazienti, non potendo dare loro risposte più precise. Alcuni, sebbene non in condizioni particolarmente critiche, nemmeno chiedevano al medico rinunciando alla montagna a priori, per paura. Altri invece, troppo spesso, sono stati vittime di tragedie perché sono saliti in quota in modo del tutto inappropriato. Oggi nessuna di queste situazioni deve più verificarsi: abbiamo nuove conoscenze, tecnologie e strumenti che ci permettono di stabilire il livello di rischio per ciascuno, e di intervenire su quel rischio abbassandolo.

Ci sono dei consigli validi per tutti?

Ogni caso è diverso dall’altro e deve essere valutato nella sua specificità.​ Due accorgimenti validi sempre però ci sono: sottoporsi a uno sforzo graduale e salire piano. In Italia la montagna è a portata di mano ed è facile raggiungere in poco tempo quote elevate. Basta pensare, per esempio, che da Milano in meno di tre ore si raggiungere il Piccolo Cervino, una delle stazioni più alte delle Alpi a circa 3.800 metri di altezza. A queste altitudini la quantità di ossigeno a disposizione è circa la metà di quella che abbiamo in pianura. Se una persona non è preparata, o non è stata adeguatamente valutata, può trovarsi nei guai, soprattutto se sosta in quota per un certo tempo.

Il Monzino ha un'area di ricerca orientata allo studio del comportamento dell’organismo in montagna, anche sotto sforzo e durante attività fisica. Ha partecipato a progetti scientifici internazionali sul Monte Rosa, sulle Ande e al campo base dell’Everest soggiornandoci per quattro settimane analizzando in particolare come cambia, in carenza di ossigeno, il modo di respirare e l’attività del sistema cardiovascolare. Attualmente sono allo studio speciali sistemi di monitoraggio hi-tech dell'attività cardiaca e respiratoria con dispositivi indossabili.