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Cuore e montagna: è ora di rompere un tabù

Grazie ai nuovi strumenti di valutazione del rischio individuale, l'alta quota diventa più sicura per chi soffre di cuore

26 Luglio Lug 2016 0000 7 years ago

La vacanza in montagna non deve essere più un tabù per i cardiopatici. È questo il messaggio lanciato dal Centro Cardiologico Monzino per gli appassionati di alta quota con il "cuore fragile". Oggi è infatti possibile prevedere per ciascuno gli eventuali rischi per il cuore stimando con precisione gli effetti dell’altitudine sul sistema cardiocircolatorio, garantendo così una "salita in sicurezza".

«Valutando le condizioni specifiche di ciascuno - dichiara Piergiuseppe Agostoni, coordinatore dell’Area di Cardiologia Critica del Centro Cardiologico Monzino - attualmente possiamo essere molto precisi nello stabilire se una persona può raggiungere l’alta quota, quale tempo di acclimatamento deve rispettare, fino a quali altezze può spingersi, quali farmaci eventualmente deve assumere per stare meglio. Oppure, se già assume una terapia stabiliamo come dobbiamo modificarla ed eventualmente rafforzarla».

Ma cosa c’entra esattamente l’altitudine con il cuore?

All’aumentare della quota - spiega il Professor Agostoni - diminuisce la disponibilità di ossigeno presente nell’aria e, proprio per compensare questa mancanza, il corpo aumenta il lavoro cardiaco, respiratorio, e la pressione arteriosa. Ma non è tutto: in quota è limitata anche la capacità dell’organismo di utilizzare l’ossigeno. Ci si trova così ad avere, da un lato, meno ossigeno a disposizione, e dall’altro un’inferiore capacità di utilizzarlo. Tutto questo genera alterazioni significative a livello cardiovascolare, fino a correre possibili rischi di infarto e ictus per gli individui già sofferenti. Se poi in quota si pratica sport, il rischio a cui ci si espone è ancora maggiore perché il fabbisogno di ossigeno dell’organismo aumenta.

Prof. Piergiuseppe Agostoni

A lungo i cardiologi hanno sconsigliato la montagna a tutela dei pazienti, non potendo dare loro risposte più precise. Alcuni, sebbene non in condizioni particolarmente critiche, nemmeno chiedevano al medico rinunciando alla montagna a priori, per paura. Altri invece, troppo spesso, sono stati vittime di tragedie perché sono saliti in quota in modo del tutto inappropriato. Oggi nessuna di queste situazioni deve più verificarsi: abbiamo nuove conoscenze, tecnologie e strumenti che ci permettono di stabilire il livello di rischio per ciascuno, e di intervenire su quel rischio abbassandolo.

Se per chi soffre di malattie respiratorie croniche, ad esempio bronchiti o malattie ostruttive croniche, la montagna resta vietata, non è così per il cardiopatico. Ogni caso è diverso dall’altro e deve essere valutato nella sua specificità.

Due accorgimenti validi sempre però ci sono: sottoporsi a uno sforzo graduale e salire piano. In Italia la montagna è a portata di mano ed è facile raggiungere in poco tempo quote elevate. Basta pensare, per esempio, che da Milano in meno di tre ore si raggiungere il Piccolo Cervino, una delle stazioni più alte delle Alpi a circa 3.800 metri di altezza. A quelle altitudini la quantità di ossigeno a disposizione è circa la metà di quella che abbiamo in pianura. Se una persona non è preparata, o non è stata adeguatamente valutata, può trovarsi nei guai, soprattutto se sosta in quota per un certo tempo.

Piergiuseppe Agostoni

Il Centro Cardiologico Monzino ha un particolare focus di ricerca orientato allo studio del comportamento dell’organismo in montagna, anche sotto sforzo e durante attività fisica. Ha partecipato a progetti scientifici internazionali sul Monte Rosa, sulle Ande, al campo base dell’Everest soggiornandoci per quattro settimane analizzando in particolare come cambia, in carenza di ossigeno, il modo di respirare e l’attività del sistema cardiovascolare. Attualmente sono allo studio sistemi di monitoraggio hi-tech dell'attività cardiaca e respiratoria nell’arco di più giorni, con dispositivi indossabili.