Più attenzione ai criteri di eleggibilità negli studi con farmaci normolipemizzanti
La riduzione del rischio cardiovascolare residuo, mediante interventi sui lipidi, andrebbe rivalutata nei pazienti veri dislipidemici.
Molti dei trials clinici volti a ridurre il rischio cardiovascolare residuo attraverso farmaci modulatori dei livelli lipidici hanno dato risultati scarsi o nulli, probabilmente perché i pazienti coinvolti, seppur ad alto rischio, presentavano , nella maggior parte degli studi lipidici con endpoint cardiovascolari a oggi pubblicati, livelli lipidici basali quasi normali. Per questo, per rivalutare l’efficacia di tali interventi sulla riduzione del rischio residuo, sarebbero indispensabili studi condotti in dislipidemici veri, vale a dire nei tipici candidati a farmaci normo lipemizzanti.
La morbilità e la mortalità cardiovascolare nei pazienti ad alto rischio restano molto elevate, anche quando si utilizzano i migliori standard di cura attualmente disponibili. Questo “rischio residuo” è stato attribuito a:
- fattori di rischio non lipidici (ipertensione, diabete, obesità, fumo, stress, depressione, ecc)
- meccanismi patogenetici emergenti (es. infiammazione)
- valori di colesterolo LDL elevati anche dopo trattamento standard o per intolleranza ai farmaci;
- anomalie lipidiche concomitanti come, ad esempio, elevati livelli di trigliceridi o di lipoproteina(a) oppure bassi livelli di colesterolo HDL.
Figura. La maggior parte degli studi lipidici con endpoint cardiovascolari ad oggi pubblicati, sono stati effettuati in soggetti ad alto rischio ma con livelli lipidici normali o quasi normali. Rari sono gli studi effettuati in soggetti con una vera dislipidemia al basale.(1)
Per minimizzare tale rischio residuo, numerosi trial clinici randomizzati sono stati condotti in pazienti ad alto rischio, imponendo un controllo del colesterolo LDL più aggressivo o concentrandosi su target alternativi quali i livelli di trigliceridi o di colesterolo HDL. Questi studi, tuttavia, hanno mostrato benefici nulli o, nella migliore delle ipotesi, molto limitati e spesso il trattamento produceva effetti significativi solo in sottogruppi specifici.
In conseguenza di questi studi, alcuni farmaci sono stati ritirati dal commercio (ad esempio, i derivati dell'acido nicotinico e gli inibitori della CETP), mentre altri (i fibrati) sono tuttora utilizzati con riluttanza dai medici a causa delle scarse evidenze di inequivocabile efficacia.
Esaminando analiticamente questi studi, un recente lavoro realizzato dal Monzino, – primo firmatario Pablo Werba, Responsabile dell’Unità Prevenzione dell’aterosclerosi, – ha identificato una caratteristica comune che potrebbe spiegare la ragione di questi scarsi risultati. Il fatto è che la maggior parte dei trials valutati coinvolgeva soggetti definiti genericamente ad alto rischio cardiovascolare, ma con livelli lipidici normali o quasi normali. Rarissimi sono gli studi effettuati in soggetti dislipidemici veri, ossia in pazienti che, anche nella normale pratica clinica, sarebbero davvero trattati con la terapia oggetto del trial. La mancanza di studi “pragmatici” effettuati in pazienti realmente dislipidemici, potrebbe aver compromesso il giudizio sull’adeguatezza della gestione lipidica per il controllo del rischio residuo.
Le nostre osservazioni suggeriscono dunque la necessità di riesaminare i criteri di eleggibilità da adottare in futuro in studi cardiovascolari più pragmatici, volti a valutare l’efficacia di nuovi farmaci ipolipemizzanti in soggetti dislipidemici veri.